Parte quinta.
Capitolo 23
†
Guerra 32 a.C. - 30 a.C.
«I tuoi atti restano non ratificati» disse Cleopatra, leggendo ad alta voce la lettera di Enobarbo. «Ho cominciato a martellare il Palazzo sin da quando sono divenuto console, ma Ottaviano dispone di un docile tribuno della plebe, Marco Nonio Balbo di quell’odiosa famiglia picentina, che continua a porre il veto a tutto ciò che cerco di fare per te. Poi, quando Sosio ha assunto i fasces da me alle calende di febbraio, ha posto mozione di censura nei confronti di Ottaviano, accusandolo di bloccare le tue riforme orientali. E indovina cos’è successo dopo: Nonio ha posto il veto alla mozione.» Posò la lettera, gli occhi d’oro fissi su Antonio e ardenti della fiamma gelida ma feroce della leonessa sul punto di attaccare. «L’unico modo di riconquistare la tua posizione a Roma è marciare contro Ottaviano.» «Se così facessi, sarei l’aggressore in una guerra civile. Sarei un traditore, e dichiarato hostis.» «Scempiaggini! L’ha fatto Silla. E anche Cesare. E tutti e due hanno finito per governare Roma. Che cos’è un hostis, a che cosa si riduce in sostanza? A un decreto d’illegalità privo di potere.» «Silla e Cesare hanno governato illegalmente, come dittatori.» «Come si governa non ha importanza, Antonio!» ribatté bruscamente lei.
«Io ho abolito la dittatura» disse Antonio, ostinato.
«Allora quando avrai sconfitto Ottaviano, ripristinane la legalità! Solo come espediente temporaneo, mio caro» lo blandì. «Oh, sicuramente te ne renderai conto anche tu, Antonio, che se Ottaviano non sarà fermato, farà in modo che i tuoi atti in Oriente siano accantonati… e nessun tribuno della plebe coraggioso porrà il veto a lui! Dopodiché, potrà affidare ai suoi clienti il governo in tutti i regni d’Oriente.» Trasse un sospiro, gli occhi di brace. «E farà anche in modo che l’Egitto sia annesso come provincia di Roma.» «Non oserebbe! Né io permetterò che siano accantonate le mie disposizioni» replicò Antonio a denti stretti.
«Dovresti andare a Roma di persona, a irrobustire le ossa degli antoniani… di questi tempi sono piuttosto infossate» ribatté lei con tono derisorio, «e per quel viaggio, sarebbe opportuno avere con te un esercito.» «Ottaviano cederà. Non potrà continuare a porre veti.» Il tono di voce di Antonio era sufficientemente incerto da rivelare a Cleopatra che stava cominciando a vincere quell’inesorabile disputa. Aveva abbandonato il suo piano di persuadere Antonio a una diretta invasione dell’Italia: lui avrebbe prestato ascolto all’idea di Ottaviano come nemico, ma mai, a quanto pareva, a quella di Roma. Alessandria e l’Egitto si erano radicati nel suo cuore, ma accanto a Roma anziché al suo posto. E allora, che fosse. Non importava per quale motivazione, a patto che Antonio finalmente si muovesse. Se non l’avesse fatto, lei sarebbe stata a tutti gli effetti quella nullità che lui l’aveva definita. Gli agenti che lei possedeva a Roma riferivano che Ottaviano aveva sistemato tutti i suoi veterani in lotti di ottima terra in Italia e in Gallia Cisalpina, e che godeva dell’approvazione della maggioranza degli italiani. Ma tuttora il suo controllo del Senato non andava oltre l’interposizione di un veto tribunizio; fra i quattrocento fidi antoniani e i trecento neutrali, Antonio era ancora in vantaggio rispetto a lui. Ma quel vantaggio era sufficiente?
«D’accordo» disse Antonio diversi giorni più tardi, pungolato oltre ogni tolleranza, «avvicinerò le mie armate e le flotte all’Italia. A Efeso.» Lanciò un’occhiata a Cleopatra da sotto le sopracciglia. «Questo, ovviamente, se avrò i denari. È la tua guerra, faraone, dunque sta a te finanziarla.» «Ne sarò lieta… a condizione che io abbia il comando congiunto. Voglio prendere parte a tutti i consigli di guerra. Voglio avere voce in capitolo, voglio una condizione paritaria alla tua. Questo significa che la mia opinione conterà più di quella di qualsiasi romano, a parte te.» Si sentì travolto da un senso di spossatezza: perché dovevano sempre esserci delle condizioni? Non si sarebbe mai liberato del lato dominante di Cleopatra? Sapeva essere così incantevole, così dolce, una così buona compagna! Ma ogni volta che pensava che quel tratto del suo carattere avesse avuto il sopravvento, ecco che cominciava a manifestarsi quello più spiacevole. Era più assetata di potere di tutti gli uomini che lui aveva incontrato, da Cesare a Cassio. E tutto per il figlio di Cesare!
D’inimmaginabile intelligenza eppure, lui avvertiva, privo di brama per il potere. Che cos’avrebbe fatto Cleopatra quando Cesarione avesse declinato il destino che lei aveva forgiato per lui? Non sapeva nulla del ragazzo, nulla.
E non sapeva neanche nulla degli uomini romani, conoscendo soltanto due romani intimamente. Né Cesare né Antonio erano persone ordinarie, come avrebbe scoperto se avesse insistito per avere il comando congiunto. La sua correttezza gli diceva che, in qualità di finanziatrice dell’impresa, lei era tenuta ad avere il comando congiunto, ma nessuno dei suoi colleghi le avrebbe accordato quel privilegio. La bocca di Antonio si aprì per dirle quello che sarebbe inevitabilmente avvenuto, ma si chiuse senza proferire parola. Sul volto della donna era disegnato quello sguardo intransigente di quando non voleva sentire ragioni; nei suoi occhi c’era aria di tempesta. Se avesse cercato di dirle che esperienza avrebbe vissuto, avrebbe scatenato un’altra delle loro molte liti. Era mai esistito un uomo che potesse aver ragione di una donna autoritaria dal potere quasi illimitato? Antonio ne dubitava. Forse il defunto Cesare, ma lui l’aveva conosciuta quand’era molto giovane, e aveva stabilito su di lei un’ascendente che lei non aveva saputo distruggere. Adesso, a distanza di anni, era inamovibile quasi fosse scolpita nella pietra. Cosa ben più grave, aveva visto lui, Antonio, nel suo momento peggiore, fradicio di vino sino all’incoscienza, e aveva interpretato quell’episodio come una dimostrazione di profonda debolezza. Sì, lui l’avrebbe intimidita ricordandole che non disponeva di un esercito o di una flotta per raggiungere i suoi scopi, ma il giorno successivo lei avrebbe ripreso a tormentarlo da capo.
Sono prigioniero, pensò, avvinto nella ragnatela delle sue trame, e non c’è modo di liberarmi senza che sia io a rinunciare alla mia corsa per il potere. In un certo senso desideriamo la stessa cosa: la distruzione di Ottaviano. Ma non permetterò che sia lei a farlo, anche se al momento non posso oppormi a lei. Devo attendere il momento giusto, dare l’impressione di soddisfare ogni suo capriccio. Compreso il comando congiunto.
«D’accordo» disse Antonio, con tono definitivo. Che tutto fosse come desiderava Cleopatra… per il momento. Dall’esperienza avrebbe imparato che sarebbe stata respinta da una tenda del comando piena di uomini romani. Ma lui sarebbe riuscito a respingerla? Vivendo accanto a lei, giacendo nello stesso letto, sarebbe riuscito a respingerla? Anche questo l’avrebbe rivelato il tempo.
«Tu desideri il comando congiunto» le disse. «Vuoi essere mia pari nei consigli di guerra.» Soppresse un singhiozzo. «D’accordo» ripeté. E infine si tagliò i ponti alle spalle. Che tutto fosse come desiderava Cleopatra; forse, al quel punto, lui avrebbe trovato pace.
Si sedette subito a scrivere a Enobarbo, usando il suo ormai defunto titolo di triumviro, e dettagliò le sue richieste al Senato e popolo romano: autorità assoluta in Oriente, che sarebbe stato completamente scisso dalla supervisione senatoria in ogni caso; il diritto di riscuotere i tributi che riteneva opportuni; l’elezione di clientisovrintendenti; il comando di ogni legione che Roma avrebbe potuto inviare a est del fiume Drina; la ratifica di tutte le sue actiones, e un’altra ratifica… quella delle terre e dei titoli che aveva garantito a re Tolomeo Cesare, alla regina Cleopatra, a re Tolomeo Alessandro Elio, alla regina Cleopatra Selene e a re Tolomeo Filadelfo.
«Ho eletto re Tolomeo Cesare re dei re e governatore del mondo. Nessuno potrà contestarmi. Inoltre, ricorderò al Senato e al popolo romano che re Tolomeo Cesare è figlio legittimo del divo Giulio, nonché suo erede legale. Voglio che sia formalmente riconosciuto.» Cleopatra era ipnotizzata; il lato spiacevole del suo carattere svanì in un battibaleno. «Oh, mio adorato Antonio, li farai tremare nei loro calzari!» «No, se la faranno addosso, mia incantevole signora. E adesso dammi mille baci.» Lei obbedì con passione, ardendo per la sua vittoria. Adesso tutto sarebbe avvenuto! Antonio sarebbe entrato in guerra; la sua lettera al Senato era un ultimatum.
A Roma giunsero due documenti: la lettera, e il testamento con le ultime volontà di Marco Antonio. Caio Sosio affidò le ultime volontà alle Vestali, custodi di tutti i testamenti dei cittadini romani; il testamento di un uomo era sacro, da aprirsi solo dopo la sua morte, e le Vestali ne erano le custodi sin dall’epoca dei re. Ma quando Enobarbo spezzò il sigillo della lettera di Antonio e la lesse, lasciò cadere la pergamena quasi fosse rovente. Trascorse del tempo prima che potesse porgerla silenziosamente a Sosio.
«Santi numi!» mormorò Sosio, lasciandola cadere a sua volta. «È pazzo? Nessun romano possiede l’autorità di fare neanche la metà di tutto ciò! Il figlio bastardo di Cesare, re di Roma? È questo che ha in mente, Gneo, è questo che ha in mente. È
Cleopatra a governare in nome di quel bastardo? Sì, dev’essere pazzo!» «Oppure drogato di continuo.» Enobarbo aveva l’aria risoluta. «Non leggerò pubblicamente questa lettera, Caio, non posso. La brucerò e pronuncerò invece un discorso. Per Giove! Che arma sarebbe per Ottaviano! Volgerebbe tutto il Senato dalla sua parte senza dover neanche alzare un dito.» «Non credi» disse Sosio con tono esitante, «che Antonio abbia progettato tutto ciò per arrivare proprio a quello? È una dichiarazione di guerra.»
«L’ultima cosa di cui ha bisogno Roma è una guerra civile» ribatté stancamente Enobarbo, «anche se sospetto che Cleopatra ne sarebbe felice. Non capisci? Non è stato Antonio a scriverla, è stata Cleopatra.» Sosio si sedette tremante. «Che cosa facciamo, Enobarbo?» «Come ho già detto. Bruceremo la lettera, e io pronuncerò il discorso più importante della mia vita di fronte a quei patetici barbogi al Senato. Nessuno dovrà mai sapere fino a che punto Cleopatra tiene in pugno Antonio.» «Difendere Antonio a oltranza, sì. Ma come facciamo a liberarlo da Cleopatra? È troppo lontano… Oh, quello stramaledetto Oriente. È come dar la caccia all’arcobaleno. Due anni fa c’erano tutti i segnali che stesse per tornare la prosperità… i pubblicani e l’ordine equestre erano estasiati. E invece negli ultimi mesi ho notato un mutamento» disse Sosio. «I re clienti di Antonio stanno subentrando, ed escludendo il commercio romano. Sono diciotto mesi che il Tesoro non riceve dei tributi orientali.» «Cleopatra» ribatté Enobarbo con tono cupo. «È Cleopatra. Se non riusciremo a strappare Antonio dalle grinfie di quella donna, saremo perduti.» «E anche lui.»
A metà estate, Antonio aveva spostato la sua imponente macchina da guerra da Carana e dalla Siria a Efeso. Cavalleria, legioni, equipaggiamenti da assedio e carovane di vettovaglie intrapresero la lenta e faticosa traversata dell’Anatolia centrale, costeggiando infine le anse tortuose del fiume Meandro sino a Efeso, dove i campi si estendevano a perdita d’occhio intorno a quell’amena cittadina. La gorgogliante massa di uomini, animali e vettovaglie trovò lentamente una sistemazione mentre mercanti e fattori locali facevano del proprio meglio per trarre un certo profitto dal disastro incarnato dagli accampamenti militari. La terra fertile su cui era cresciuto il grano e avevano pascolato le pecore fu rivoltata sino a divenire sterile fango o polvere, a seconda delle condizioni atmosferiche, mentre i legati subalterni di Antonio, schiatta non certo sensibile o comprensiva, peggioravano la situazione rifiutando di discutere lo stato delle cose con la gente del luogo. Razzie e stupri aumentarono vertiginosamente; e così gli assassini per ritorsione, i pestaggi, la resistenza passiva e attiva agli invasori. I prezzi s’impennarono. La dissenteria divenne pandemica. Alcuni dei motivi per cui, nei tempi andati, un governatore romano si era arricchito a volontà minacciando di alloggiare temporaneamente le sue legioni in una città a meno che questa non gli versasse dai cento a mille talenti. La città terrorizzata si era precipitata a pagare.
Antonio e Cleopatra soggiornavano sulla Filopatore, che attraccò nel porto di Efeso in mezzo alle esclamazioni di meraviglia. Qui Antonio lasciò la moglie e la nave per salire a bordo di un altro vascello diretto ad Atene: aveva del lavoro da completare laggiù, e lo disse a Cleopatra. La quale scoprì di non riuscire a tenere a freno quel sobrio Antonio come aveva fatto ad Alessandria; Efeso era territorio rigorosamente romano, e lei non ne era governatore più di quanto non fossero stati i suoi antenati. Dunque non era tradizione chinare la testa al cospetto dell’Egitto. Ogni qual volta lasciava il palazzo del governatore per ispezionare la città o uno degli accampamenti, gli uomini la guardavano come se recasse un’offesa profonda. E lei non poteva punirli per la loro villania. Publio Canidio era un vecchio amico, mentre gli altri comandanti e i loro legati, di cui Efeso era gremita sino al punto di scoppiare, la consideravano oggetto di scherno o un insulto. Niente inchini nella Provincia d’Asia!
Era di pessimo umore sin dal giorno precedente alla partenza della Filopatore da Alessandria, quando Cesarione le aveva fatto una scenata del tutto sgradita e spiacevole. Era stato lasciato a governare l’Egitto, un compito che lui non desiderava.
Non perché smaniasse di andare in guerra con la madre e il patrigno… il nocciolo della questione era il motivo della loro assenza.
«Madre» disse a Cleopatra, «è una follìa! Non te ne rendi conto? Stai sfidando la potenza di Roma! So che Marco Antonio è un grande generale e dispone di un vasto esercito, ma se anche mettesse in gioco tutte le sue risorse, Roma non può essere sconfitta. Impiegò centocinquant’anni a sconfiggere Cartagine, ma Cartagine fu sconfitta… in maniera tanto efferata da non risorgere mai più! Roma è paziente, ma non impiegherà centocinquant’anni a sconfiggere l’Egitto e l’Oriente di Antonio. Te ne prego, t’imploro, non offrire a Cesare Ottaviano la possibilità di venire in Oriente!
Riterrà la concentrazione di tutte le forze di Antonio a Efeso, così distante da una qualsiasi regione a rischio, come una dichiarazione di guerra. Ti supplico, madre, non farlo!» «Sciocchezze, Cesarione» ribatté la donna con tono sicuro, mentre si spostava da una parte all’altra per sovrintendere alla preparazione dei suoi bagagli. «Antonio è imbattibile sulla terra e sul mare. Me ne sono assicurata fornendogli un ingente fondo di guerra. Se dovessimo ritardare, Ottaviano raccoglierà semplicemente le forze.» Il ragazzo era accanto a un recentissimo busto che lo raffigurava, commissionato da Cleopatra a Doroteo d’Afrodisia, e si sdoppiava inconsciamente negli occhi della madre. Cherilo aveva dipinto il busto, ne aveva catturato alla perfezione ogni sfumatura della pelle e dei capelli e delineato magistralmente gli occhi. La scultura sembrava talmente viva da poter aprir bocca e parlare, ma svaniva al confronto della realtà ardente e appassionata che le stava accanto.
«Madre» insistette il ragazzo, «Ottaviano non ha neanche cominciato ad attingere alle sue risorse. E per quanto io sia affezionato a Marco Antonio, non è alla pari di Marco Agrippa sulla terra o sul mare. Sulla carta Ottaviano potrà anche occupare la tenda del comando, ma lascerà la guerra ad Agrippa. Ti avverto, Agrippa è il perno di tutto! È formidabile! Roma non partoriva un suo eguale sin dai tempi di mio padre.» «Oh, Cesarione, basta! Ti preoccupi così tanto che io non ti presto neanche più attenzione.» Cleopatra fece una pausa tenendo fra le mani una delle sue vesti preferite. «Chi è questo Marco Agrippa? Una nullità, un uomo di nessun valore. Alla pari di Antonio? Decisamente no.» «Allora, almeno tu potresti restare qui ad Alessandria» implorò il ragazzo.
La donna parve sbigottita. «Che cosa ti viene in mente? Sono io a finanziare questa campagna, e questo significa che sono compagna di Antonio nell’impresa. Mi credi una novizia nel muovere guerra?» «A dire il vero, sì. La tua unica esperienza è stata all’epoca in cui ti stanziasti sul Monte Casio in attesa di Achilla e del suo esercito. E fu mio padre a cavarti da quell’imbroglio, non le tue inesistenti doti militari. Se accompagnerai Marco Antonio, i suoi colleghi romani penseranno che sia sotto il tuo controllo, e ti odieranno. I romani non sono abituati ad avere gli stranieri nelle tende del comando.
Non sono uno sciocco, madre. So bene che cosa dicono di te e Antonio, a Roma.» Lei s’irrigidì. «E che cosa dicono di noi a Roma?» «Che sei un’incantatrice, che hai stregato Antonio, che è il tuo balocco, la tua marionetta. Che sei tu a spingerlo allo scontro con il Senato e il popolo. Che se non fosse tuo marito, non sarebbe avvenuto nulla di ciò che avvenuto» disse Cesarione, animosamente. «Ti chiamano la Regina delle Bestie, e ti ritengono la principale promotrice della faccenda, non Antonio.» «Stai esagerando» disse Cleopatra, con tono minaccioso.
«No, non sto esagerando, se non sono riuscito a convincerti a rinunciare a tutto questo! Soprattutto a non parteciparvi personalmente. Mia adorata, amatissima madre, tu ti comporti come se Roma fosse re Mitridate il Grande. Roma non ha, e non avrà mai!, una mentalità orientale. Roma è occidentale. Il suo unico scopo è controllare l’Oriente per la sua stessa sopravvivenza.» L’aveva osservato con attenzione, gli occhi che si spostavano avanti e indietro mentre cercava di decidere quale fosse la migliore linea di condotta da adottare. Dopo esserci arrivata, disse con voce melliflua: «Cesarione, non hai ancora quindici anni.
Sì, ammetto che sei un uomo. Ma a tutti gli effetti, un uomo alquanto giovane e inesperto. Governa saggiamente l’Egitto e, quando Antonio e io torneremo cinti dagli allori della vittoria, ti affiderò ulteriori poteri.» Lui smise di lottare. Gli occhi velati di lacrime, la fissò, scosse la testa e lasciò la stanza.
«Che ragazzo sciocco» disse amorevolmente a Iras e a Charmian.
«Che bel ragazzo» ribatté Charmian, sospirando.
«Non è un ragazzo, e non è sciocco» intervenne Iras, con tono cupo. «Non ti sei accorta, Cleopatra, che parla da profeta? Dovresti prestare attenzione a ciò che dice, e non ignorarlo.» Così era salpata sulla Filopatore con le parole di Iras che le ronzavano nelle orecchie; erano quelle, e non tanto quello che aveva effettivamente detto Cesarione, a renderla infelice; una disposizione d’animo che l’atteggiamento dei colleghi di Antonio a Efeso peggiorava soltanto. Ma da despota qual era, tutto ciò serviva solo a renderla più sprezzante, sgarbata e prepotente.
Antonio non aveva colpa se la sua nave fece scalo a Samo; sviluppò una falla che non poteva aspettare d’essere riparata ad Atene, e Samo era l’isola più vicina.
Il corpo degli artisti cultori di Dioniso aveva fatto di Samo il suo quartier generale; mentre attendeva, Antonio pensò di poter dare un’occhiata a cosa combinavano maghi, danzatori, acrobati, attrazioni da circo, musici e altri che ciondolavano nelle loro ridenti casette sino alla chiamata di qualche fiera lontana. Nessuna al momento, lo informò Callimaco, il capo del corpo degli artisti, dopo avergli mostrato un meraviglioso trucchetto con cui trasformava gli scarabei in sfavillanti farfalle.
«In ogni caso, abbiamo deciso di organizzare un banchetto in tuo onore. Pensi di parteciparvi?»
Certo che sì! Resistere all’istinto di bere vino era nulla al confronto del suo impulso di cercare svago in compagnia di assortiti intrattenitori. L’unico problema, come scoprì di lì a poco, era che la sobrietà limitava estremamente il suo divertimento; così prese una coppa di vino e procedette a ubriacarsi.
Quanto avvenne nei giorni seguenti a quella decisione non ricordò; era vero che, più lui invecchiava, più il vino comprometteva la sua memoria. Soltanto il suo segretario Lucilio lo riportò con forza allo squallido mondo della continenza… e con una sola, semplice frase: «La Regina verrà a saperlo».
«Oh, per Giove!» grugnì Antonio. «Cacat!» La falla era stata riparata nundinae fa, scoprì quando Lucilio e i suoi servi personali lo trasportarono a bordo quasi di peso, vacillante e zoppicante. Possibile che avesse bevuto tanto? O ne era più rapidamente devastato? Durante i postumi da sbornia si accorse di un nuovo terrore, quello che infine gli anni di dissolutezza gli stavano alle costole. I giorni in cui sollevava incudini erano finiti. Aveva compiuto cinquantuno anni e, quando fletteva i bicipiti, li sentiva un po’ flaccidi, non sporgevano di scatto. Cinquantuno anni! La veneranda età di un consolare. E
Ottaviano aveva appena trent’anni, ne avrebbe compiuti trentuno verso la fine di settembre. Cosa peggiore, tutti i migliori generali di Ottaviano erano giovani, mentre i suoi erano come lui, si stavano facendo brizzolati. Canidio superava la sessantina!
Oh, ma dov’era andato a finire il tempo? Avvertì un senso di nausea e dovette correre alla battagliola per vomitare.
Il suo valletto gli portò dell’acqua da bere, tamponandogli labbra e mento con una spugna. «Stai covando qualcosa, domine?» «Sì» disse Antonio rabbrividendo. «La vecchiaia.» Ma quando la nave ormeggiò al Pireo, Antonio aveva ritrovato un po’ della prestanza fisica dell’ultimo anno, anche se era di pessimo umore.
«Dov’è mia moglie Ottavia?» domandò al suo maggiordomo nel palazzo del governatore.
L’uomo aveva lo sguardo assente… no, sbigottito. «Sono anni che la signora Ottavia non si trova più nella residenza, Marco Antonio.» «Anni? Che cosa intendi dire? Dovrebbe essere qui, assieme ai ventimila soldati inviati da suo fratello!» «Posso solo ripeterti, domine, che non si trova qui. E non ci sono neanche soldati alloggiati nelle vicinanze. Se il padrone Ottaviano ha mandato dei soldati, devono essere andati in Macedonia, o via terra nella Provincia d’Asia.» Gli stava tornando la memoria; cinque anni fa Ottavia era venuta con quattro coorti di soldati, e non quattro legioni. E lui le aveva ordinato di mandare ad Antiochia i doni militari che gli aveva inviato Ottaviano, e a lei di tornare a casa. Cinque anni!
Era trascorso realmente tanto tempo? No, forse era stato quattro anni fa. O tre? Ma importava davvero?
«Sono stato troppo a lungo lontano da Roma» disse a Lucilio sedendosi allo scrittoio.
«L’ultima volta è stato a Tarentum, sei anni fa» rispose Lucilio dal proprio scrittoio.
«Allora sono quattro anni fa che Ottavia è venuta ad Atene.» «Sì.» «Prendi una lettera, Lucilio… A Ottavia, da Marco Antonio. Con la presente ti ripudio. Lascia la mia casa di Roma e rinuncia alla proprietà di tutte le mie ville in Italia. Non ti restituirò la dote, né continuerò a mantenerti assieme ai miei figli romani. Ti prego di accettare questa decisione come vincolante e definitiva.» Tenendo gli occhi fissi sul foglio di carta, Lucilio scriveva. Oh, cara signora! Con quest’atto, ogni speranza di salvare Antonio è perduta… Sollevò il capo, si alzò, mise la carta di fronte ad Antonio. Fra le sue doti superlative, c’era una grafia tanto bella da non aver bisogno d’essere ricopiata da uno scriba professionista.
Antonio lesse rapidamente, quindi ripiegò il foglio. «La cera, Lucilio.» Il rosso era il colore consueto per i documenti ufficiali. Lucilio avvicinò lo stilo alla fiamma d’una lampada con tale perizia da non farlo sbiadire per il fuoco, e lo allontanò nell’istante in cui una goccia delle dimensioni di un denarius giacque in diagonale alla piega esterna. Antonio v’inserì l’anello del sigillo e lo premette con forza. Ercole, circondato da IMP. M. ANT. TRI.
«Spediscila sulla prossima nave per Roma» disse Antonio, secco, «e trovamene una diretta a Efeso. I miei affari ad Atene sono decisamente conclusi.» Sorrise con amarezza. «Non sono mai esistiti.»
A quanto pareva, non c’era un momento esatto in cui poteva dire d’aver effettivamente tagliato i ponti con Roma, decise Antonio mentre salpava dal Pireo; solo che risaliva a quando si era reso conto di aver giurato di consacrare se stesso e il suo bottino a Cleopatra e ad Alessandria. Il suo amore per Ottavia e le cose romane non aveva prosperato, mentre il suo amore per Cleopatra aveva finito per abbracciare ogni cosa. Perché fosse così non sapeva davvero, se non che lei si era insediata nell’intimo della sua essenza, e che lui non riusciva a contraddirla neanche quando le sue richieste erano assurde. Sì, in parte era dovuto ai suoi vuoti di memoria, ma non si poteva neanche imputarlo a quelli. Forse la grande regina gli era entrata d’improvviso nel cuore perché almeno lei era riuscita a trovargli un merito; almeno lei lo giudicava potente e degno di frequentazione. Roma apparteneva a Ottaviano, allora perché non lasciar perdere del tutto Roma? In fin dei conti, era quella la sostanza dei fatti. Se voleva essere il primo uomo di Roma, avrebbe dovuto sconfiggere Ottaviano sul campo di battaglia. E Cleopatra l’aveva capito chiaramente, da sempre. Le sue pericolose gozzoviglie a Samo, con gli orrendi postumi del malessere e del recente vuoto di memoria, gli avevano insegnato che i suoi migliori anni erano ormai trascorsi, anche se sapeva che erano soltanto gozzoviglie. Gozzoviglie cui non aveva saputo resistere, quando invece la vera ragione per cui aveva navigato da Efeso ad Atene era quella di fuggire il suo amore, il suo tormento, i giuramenti fatti a Cleopatra.
Dunque, aveva pensato arrivando ad Atene più o meno guarito, perché non tagliare i ponti con Roma? Tutti, da Cleopatra a Ottaviano lo desideravano, se lo aspettavano, non avrebbero accettato niente di meno da lui. E adesso doveva tornare a Efeso prima che Cleopatra creasse nuovi problemi.
Ma prima che lui potesse raggiungere Efeso, la presenza di Cleopatra stava avendo gravi ripercussioni. Prima partirono per Roma Saturnino e Arrunzio, dichiarando di preferire servire un uomo che detestavano che non una donna d’ogni genere; almeno Ottaviano era un romano! Poi seguì Atratino assieme a un gruppo di legati più giovani, infuriati per la maniera in cui Cleopatra faceva il giro dei loro accampamenti trovando delle pecche o arrivava a usare parole caustiche sull’equipaggiamento trascurato o in merito a importanti centurioni che non scattavano sull’attenti quando lei li apostrofava.
Quando Atratino raggiunse Roma, Enobarbo e Sosio ascoltarono le sue lamentele sgomenti.
Le cose non andavano bene neanche a Roma. Il Tesoro era quasi vuoto, per i costi dovuti al reperimento di terra adatta alle tante migliaia di veterani. I molti milioni di sesterzi che avevano ceduto le casse di Sesto Pompeo, per quanto sembrasse incredibile, erano stati spesi. La terra era divenuta costosa, e pochissimi legionari accettavano di ritirarsi in località straniere come la Spagna, le Gallie e l’Africa.
Anche loro erano romani, radicati al suolo italiano. Sì, i soldati congedati rimasero soddisfatti… ma a un costo elevato per la nazione.
In ogni caso, non si poteva negare che Ottaviano stava lentamente guadagnando influenza in Senato e fra i plutocrati e l’ordine equestre; le opportunità nell’Oriente di Antonio andavano scemando, e gli uomini e le attività che due anni prima prosperavano adesso stavano andando in rovina. Polemone, Archelao Sisene, Aminta e i piccoli dinasti eletti da Antonio avevano acquisito sufficiente sicurezza da legiferare e rendere impossibile il fiorire del commercio romano. Istigati, come tutti sapevano, da Cleopatra, il ragno al centro di quella ragnatela.
«Che cosa facciamo?» domandò Sosio a Enobarbo dopo che l’infuriato Atratino se ne fu andato.
«Ci sto pensando sin dalla lettera di Antonio, Caio, e ritengo sia rimasta una sola cosa da fare.» «Allora, avanti!» gridò Sosio, impaziente.
«Dobbiamo rafforzare la romanità del governo di Antonio in Oriente, questo è il primo dente della sua forchetta a due rebbi» disse Enobarbo. «Il secondo è far sembrare che Ottaviano agisca in maniera illegale.» «Illegale? E come accidenti pensi di farlo?».
«Spostando il governo da Roma a Efeso. Tu e io siamo i consoli dell’anno. E anche la maggioranza dei pretori sono uomini di Antonio. Dubito che strapperemo qualche tribuno della plebe dal suo seggio, ma se verrà con noi metà Senato, costituiremo un indiscusso governo in esilio. Sì, Sosio, lasceremo Roma per Efeso!
Rendendo così Efeso il centro del governo, e arricchendo la cerchia di Antonio, diciamo, di cinquecento romani fidati. Più che sufficienti a costringere Cleopatra a tornarsene a casa in Egitto.» «Come fece Pompeo Magno dopo che Cesare, mi correggo, il divo Giulio!, passò il Rubicone entrando nell’Italia vera e propria. Portò con sé in Grecia i consoli, i pretori e quattrocento senatori.» Sosio si accigliò. «Ma a quei tempi il Senato era più ridotto, e non ospitava tanti novi homines. Oggi il Senato è formato da un migliaio di membri, e per due terzi da uomini nuovi. Molti di loro uomini di Ottaviano. Se vorremo sembrare un governo in esilio, dovremo persuadere almeno cinquecento senatori a venire con noi, e non credo che ci riusciremo.» «Neanch’io, a dire il vero. Io punto ai quattrocento antoniani incalliti. Non certo una maggioranza, ma abbastanza impressionante da convincere quasi tutti dell’illegalità delle azioni di Ottaviano, in caso cercasse di formare un governo per rimpiazzarci» esclamò Enobarbo, con aria tronfia.
«Così facendo, Gneo, provocherai una guerra civile.» «Lo so. Ma la guerra civile è comunque inevitabile. Altrimenti perché Antonio avrebbe spostato tutto il suo esercito e la flotta a Efeso? Credi che Ottaviano non abbia interpretato correttamente quella mossa? Io lo disprezzo come uomo, ma sono ben consapevole della sua intelligenza. Nella testa di Ottaviano abita una copia distorta dell’intelletto di Cesare, credimi.» «Come fai a sapere che si trova nella testa?» «Che cosa?» domandò Enobarbo con aria assente.
«L’intelletto.» «Lo sa chiunque sia stato sul campo di battaglia, Sosio. Domanda a un medico militare qualsiasi. L’intelletto risiede all’interno della testa, nel cervello.» Enobarbo si sbracciò, esasperato. «Sosio, non stiamo discutendo di anatomia e della posizione dell’animus! Stiamo discutendo della maniera migliore per aiutare Antonio a uscire dalla melma egiziana e tornare all’ovile a Roma!» «Sì, sì, certo. Perdonami. Dobbiamo agire alla svelta, allora. In caso contrario, Ottaviano ci impedirà di lasciare l’Italia.»
E invece Ottaviano non lo fece. I suoi agenti riferirono l’improvviso turbinìo di attività da parte di certi senatori… ritiravano i denari dalle banche, mettevano da parte i loro beni per impedirne la requisizione, impacchettavano case, mogli, figli, pedagoghi, tutori, bambinaie, valletti, camerieri, parrucchieri, truccatori, sarte, sguattere, guardie del corpo e cuochi. Ma lui non fece alcuna mossa, e non ne parlò neanche nel Palazzo o sui rostra del Foro Romano. Aveva lasciato Roma agli inizi della primavera, ma era tornato, vigile come un segugio, anche se del tutto inattivo.
Così Enobarbo, Sosio, dieci pretori e trecento esponenti del Senato si affrettarono lungo la Via Appia sino a Tarentum a cavallo o sui cisia, lasciando viaggiare i loro dipendenti in lettiga assieme a centinaia di carri bestiame gremiti di servitori, mobili, tessuti, ventagli, suppellettili e viveri. Tutto ciò fu infine imbarcato a Tarentum, il porto più vicino per i viaggi diretti ad Atene intorno a Capo Tenaro o a Patre sul Golfo di Corinto.
Trecento senatori appena! Enobarbo era deluso di non essere riuscito a convincere un quarto dei fedeli antoniani, e ancor meno qualcuno dei neutrali, ma il numero era più che rispettabile, ne era sicuro, per rendere impossibile a Ottaviano la formazione di un governo funzionante senza enormi proteste. Giudizio ampiamente dovuto alla particolarità stessa di Enobarbo; era un uomo palatino con una visione elitista di Roma tipica dell’uomo palatino.
Antonio fu lieto di vederli, e allestì subito un antisenato nel palazzo municipale di Efeso. Indegni mercanti facoltosi che detenevano la semplice posizione di socius furono strappati alle loro case; per fortuna, Efeso era un vasto emporio e fornì ad Antonio una quantità di residenze tale da ospitare quell’enorme afflusso di notabili e delle loro famiglie. I plutocrati locali si trasferirono a Smirne, Mileto e a Priene, il che portò alla scomparsa delle spedizioni commerciali dal porto, un’altra benedizione; avrebbero potuto attraccarvi ulteriori galee da guerra. Che cosa sarebbe accaduto alla città quando quell’accozzaglia di romani fosse partita non preoccupava Antonio o i suoi confratelli, purtroppo; Efeso avrebbe impiegato parecchi anni a ritrovare la prosperità.
Cleopatra non era affatto compiaciuta dell’arrivo di Enobarbo e del governo in esilio, che rifiutò categoricamente di permetterle la frequenza nell’antisenato.
Il che la portò a rivolgere, ringhiando, un’imprudente dichiarazione a Enobarbo.
«Te ne pentirai quando emetterò sentenze in Campidoglio!» «Non emetterai alcuna sentenza nei miei confronti, signora!» ringhiò lui in risposta. «Se tu emetterai sentenze in Campidoglio, io sarò morto… e con me tutti i romani perbene! Ti consiglio vivamente, Cleopatra, di toglierti queste idee dalla testa, perché non succederà mai!» «Non osare rivolgerti a me con il nome di battesimo» disse lei con tono raggelante.
«Rivolgimi il titolo di “Vostra Maestà”… e inchinati!» «Neanche per sogno, Cleopatra!» Lei andò dritta da Antonio, tornato da Atene con una disposizione d’animo indolente e cupa che lei adduceva ai postumi dei suoi bagordi a Samo; Lucilio aveva fatto rapporto.
«Voglio frequentare il Senato, e voglio che quello zotico di Enobarbo sia messo in riga» gridò, i pugni stretti ai fianchi e la bocca una sottile linea rossa.
«Mia cara, non è possibile per te frequentare il Senato… è sacro a Quirino, il dio degli uomini romani. E io non sono nella posizione di… insomma… mettere in riga uomini augusti del calibro di Gneo Domizio Enobarbo. Roma non è governata da un re, è una democrazia. Enobarbo è mio pari, così come tutti gli uomini romani, non importa quanto poveri o mediocri. Agli occhi della legge gli uomini romani sono tutti uguali. Primus inter pares, Cleopatra… io posso essere solo il primo fra i miei pari.» «Allora le cose devono cambiare.» «Non possono cambiare. Mai. Gli hai detto davvero che emetterai sentenze in Campidoglio?» domandò Antonio, accigliandosi.
«Sì. Quando tu avrai sconfitto Ottaviano e Roma sarà nostra, io vi presiederò con Cesarione come vice finché non sarà abbastanza maturo.» «Neanche Cesarione potrà farlo. In primo luogo, non è un romano. E in secondo luogo, nessun uomo o donna vivente risiede in Campidoglio. È sacro alle nostre divinità romane.» Lei puntò il piede. «Oh, proprio non ti capisco! Prima eleggi mio figlio re dei re, e poi ti basta parlare con qualche romano per tornare a essere romano in tutto e per tutto! Deciditi! Devo continuare a finanziare la corsa di mio figlio per il dominio del mondo, o devo preparare armi e bagagli e tornarmene ad Alessandria? Sei un idiota, Antonio. Un grosso, goffo e indeciso idiota!» Per tutta risposta, Antonio le voltò le spalle; il tempo le avrebbe dimostrato che, quando lui avesse sconfitto Ottaviano, Roma sarebbe andata avanti come aveva sempre fatto… come una repubblica senza re. Nel frattempo, era lei a pagare i conti, nella loro integrità. Questo non la rendeva la padrona di un esercito romano, ma la rendeva la padrona di quella campagna. Oh, lui avrebbe potuto costringerla a tornare in Egitto. Cosa che tutti i legati furibondi gli consigliavano di fare, ed erano sempre di più ogni giorno che passava. Ma se l’avesse rispedita a casa, lei avrebbe portato con sé il suo fondo di guerra, con tutti i suoi ventimila talenti d’oro. Qualcuno, come Atratino, gli aveva detto con franchezza che avrebbe dovuto limitarsi a uccidere quella troia, confiscarle il fondo di guerra e annettere l’Egitto all’impero. Sapendo di non essere in grado di commettere alcunché del genere, tollerava in silenzio le diatribe di Cleopatra e ricordava ai suoi legati chi era a pagare. Ma qualcuno, come Atratino, aveva finito per preferire il regime di Ottaviano a quello di Cleopatra.
«Come posso rispedirla a casa?» domandò Antonio a Canidio, uno dei sostenitori romani di Cleopatra.
«Non puoi, Antonio, lo so.» «Allora perché in tanti mi chiedono di farlo?» «Perché non sono abituati alle donne di potere, e non si sono ficcati nella zucca che colei che paga detta legge.» «E se lo ficcheranno mai nella zucca?» Canidio rise per quella domanda ingenuamente buffa. «A essere sinceri, no. In caso affermativo, comporterebbe artifici, atteggiamenti ellenistici… tutte qualità che non posseggono.»
L’altro sostenitore di Cleopatra era Lucio Munazio Planco, che la donna aveva comprato con una munifica tangente. Quell’investimento le aveva anche guadagnato i favori di Marco Tizio, nipote di Planco, anche se Tizio, più apertamente brutale di Planco, trovava difficile nascondere la propria avversione e il disprezzo per la nuova padrona dello zio. Quello che Cleopatra non vedeva in Planco era la sua dote infallibile di scegliere la fazione vincente in ogni conflitto fra potenziali primi uomini romani. Come il nonno effettivo di Lucio Marcio Filippo, era un voltagabbana nato, che non disdegnava di cambiare partito quando lo induceva l’istinto.
E, come disse a Tizio alla fine di un mese a Efeso: «Sto cominciando a capire perché Antonio resta come azzoppato quando tratta con quella donna. Credo sia una scempiaggine che lei lo droghi, o che addirittura lo incanti come fanno i Marsi con i serpenti. No, è la sua inadeguatezza a legarlo a lei… è un marito succube, e lo sappiamo tutti. Preferirebbe rapire Cerbero dalle porte dell’Ade anziché opporsi a lei, per una bazzecola o per un enorme ultimatum. Ne ho avuto un assaggio quando vagheggiavo di essere innamorato di Fulvia… poteva indurmi con l’inganno, costringermi con le intimidazioni o convincermi con la forza a fare di tutto, e, come Cleopatra, ha cercato di occupare la tenda del comando. Ebbene, la sua sola ricompensa è stata quella di essere ripudiata da Antonio per la sua temerarietà, mentre Cleopatra? Lei è sua madre, la sua amante, la sua migliore amica e la sua comandante congiunta».
«Forse è questo il nocciolo della questione» replicò Tizio, meditabondo. «Per vent’anni tutta Roma ha conosciuto Antonio come un’autentica forza della natura.
Aveva dieci erezioni per notte, si è lasciato dietro una scia di cuori infranti, bastardi e mariti consenzienti, ha spezzato insieme le teste come meloni, ha guidato i carri trainati da leoni… è una leggenda che sta diventando rapidamente un mito. È stato molto determinante in Senato, ha servito con valore a Farsalo e ha riportato una brillante vittoria a Filippi. È adulato! E adesso tutti noi che lo idolatriamo stiamo scoprendo che il nostro colosso ha i piedi d’argilla… Cleopatra lo domina completamente. Per noi è un colpo schiacciante.» «Potenza ineluttabile di Nemesi… Sta pagando il fio di una vita leggendaria. Bene, Tizio, aspettiamo e vediamo. A Roma ho ancora degli amici, mi terranno informati di come Ottaviano affronterà questa imminente crisi. Nell’istante in cui la bilancia dovesse pendere a favore di Ottaviano… leveremo le tende.» «Forse sarebbe opportuno levarle subito.» «No, non credo» disse Planco.
Per la maggior parte, l’arroganza e la scortesia che si percepivano da parte di Cleopatra derivavano da una nuova e allarmante insicurezza; la cultura da cui proveniva e le circostanze della sua vita sino a quel momento non le avevano mai instillato la consapevolezza che una donna, e a maggior ragione una che era regina, fosse inferiore a un uomo. Non le passò mai per la mente che, entrando nel mondo degli uomini romani, né il suo rango né la sua indicibile ricchezza li avrebbe indotti a considerarla loro pari. Il suo errore fondamentale fu quello di pensare che fosse la sua origine straniera ad attirarle le loro antipatie; il fatto che fosse invece il suo sesso era per lei tanto incredibile da non considerarlo mai. Così, quando scimmiottò la condotta dei suoi nemici romani nella cerchia di Antonio, lo fece per cercare di apparire più romana, e meno straniera. Indossando un elmo piumato, una corazza sopra una cotta di maglia e uno spadino agganciato a un balteo tempestato di gemme, marciava per il quartier generale militare imprecando volgarmente come un legato, credendo che, quando le lanciavano i loro sguardi di disprezzo, fosse perché non era riuscita a sembrare abbastanza romana. Quando girava per gli accampamenti prima del ritorno di Antonio da Atene, paludata nella sua armatura e berciando le sue imprecazioni, i legionari ridevano di lei apertamente, i centurioni cercavano di soffocare una risata, i tribuni militari la squadravano da capo a piedi quasi fosse un’attrazione da circo, i legati più giovani la ricoprivano d’insulti e procedevano a ignorarla. In un’occasione chiese a un comandante legionario di sferzare il suo centurione primipilus per insubordinazione; l’uomo rifiutò categoricamente, senza esserne intimidito.
«Va’ a giocare con le bambole, e non con i soldatini» ribatté l’uomo.
Le aveva dato la risposta, ma lei non se ne accorse. Non era la sua origine straniera: ma il fatto che labbra muliebri sputassero oscenità e un corpo femminile indossasse l’equipaggiamento militare. Le donne non interferivano negli affari maschili, non di persona e non sotto il naso degli uomini.
Al ritorno di Antonio da Atene lei chiese vendetta, ma l’uomo si rifiutò di agire e preferì dirle di starsene alla larga dagli accampamenti se non voleva sembrare una sciocca; non gli venne mai in mente che lei non capiva la causa dell’inimicizia da parte dei romani. Se lei non gli obbedì del tutto, da quel momento in avanti fece in modo di frequentare solo gli accampamenti degli alleati non romani di Antonio. Ah, come sapevano trattarla loro! Licomede, il figlio di Polemone (Polemone stesso era tornato nel Ponto a proteggere l’estremo Oriente dai Medi e dai Parti), Aminta di Galazia, Archelao Sisene di Cappadocia, Deiotaro Filadelfo di Paflagonia, e gli altri re clienti giunti a Efeso, la incensavano.
Cleopatra aveva notato che Erode di Giudea non si era presentato, né aveva inviato un esercito; quando le sue lamentele sul trattamento che le veniva riservato furono sommariamente liquidate al ritorno di Antonio, fece notare a quest’ultimo l’assenza di Erode, cosa che lo inquietò al punto da indurlo a scrivere una lettera al re dei giudei. La risposta di Erode fu rapida e infiorettata di frasi ossequiose che, ridotte all’osso e sommate, comunicavano che certe questioni a Gerusalemme impedivano la sua presenza e la spedizione di un esercito. La ribellione aperta era a un passo e perciò… mille scuse, ma… Tutto vero, anche se non era quello il motivo dell’inadempienza di Erode. L’istinto di sopravvivenza di Erode era altrettanto affinato come quello di Planco, e diceva a Erode che Antonio avrebbe potuto non vincere quella guerra. Per tenere il piede in due staffe, aveva inviato una cortese missiva a Ottaviano a Roma, corredata da un dono per il tempio di Giove Ottimo Massimo… una sfinge d’avorio scolpita da Fidia in persona. Un tempo era appartenuta a Caio Verre, che l’aveva rubata dalla sua provincia di Sicilia e l’aveva data come onorario a Ortensio per difenderlo (invano) dalle tante accuse di concussione. Da Ortensio passò a uno dei Perquitieni per mille talenti; finito in bancarotta, quel Perquitieno la vendette per cento talenti a un mercante fenicio, la cui vedova, digiuna d’arte, la vendette a Erode per dieci talenti. Il suo reale valore, come stimava Erode, andava dai quattro ai seimila talenti, e aveva sentito dire che Antonio stava ricoprendo Cleopatra di opere d’arte. La regina Alessandra sapeva che lui la possedeva e, se l’avesse spifferato a Cleopatra, non sarebbe rimasta di Erode per molto. Detestando la vicina egiziana con tutte le sue forze, aveva quindi deciso che il miglior posto per la sfinge era Roma… in una pubblica piazza di grande santità. Per strapparla a Giove Ottimo Massimo, Cleopatra avrebbe dovuto davvero emettere sentenze in Campidoglio. L’oggetto rappresentava un investimento per il futuro del suo regno e per sé. Se Antonio avesse vinto… oh, così non fosse, legato com’era a Cleopatra! Non sapendo di fare eco alle opinioni di Atratino, Erode decise che, per Antonio, l’unica via d’uscita dall’attuale ginepraio era quella di uccidere Cleopatra e annettere l’Egitto all’impero.
Mentre a fine estate l’esercito e la flotta cominciavano a spostarsi da Efeso in Grecia, Antonio trovò il dono più azzeccato da elargire a Cleopatra, quello di distrarla dalle costanti liti e bisticci nella tenda del comando: inviò degli emissari a Pergamo e ordinò che le duecento pergamene della sua biblioteca fossero impacchettate e spedite ad Alessandria.
«Una piccola ricompensa per il rogo dei tuoi libri da parte di Cesare» disse. «Molti sono delle copie, ma a Pergamo ci sono alcuni volumi unici.» «Sciocco!» disse lei con tono amorevole, scompigliandogli i capelli. «Quello che è bruciato era un deposito di libri sul fronte del porto, non la biblioteca di Alessandria.
Quella si trova nel Museo.» «Allora le restituirò a Pergamo.» Lei si alzò a sedere. «E invece no! Se resteranno a Pergamo, qualche governatore romano le confischerà per Roma.»